1995/1996 CERRO ACONCAGUA (6960 m) Argentina

CERRO ACONCAGUA (6960 metri) Inverno 1995/1996


Sono trascorsi quattro mesi dal felice periodo in Nepal tra i colossi himalajani. Da quei giorni ho intensificato la mia presenza tra i monti valsesiani e parallelamente ho frequentato una palestra di pesistica per irrobustire il mio fisico e allenarlo a portare zaini pesanti.

Il progetto che mi rende insonne è la conquista dell’Aconcagua, la vetta più elevata del continente americano situata in Argentina.

Inizialmente avevo deciso di aggregarmi ad una spedizione organizzata da un’agenzia ma, data l’eccessiva spesa, ho abbandonato l’idea. Parlandone con Giovanni, alpinista valsesiano conosciuto da pochi mesi, trovo in lui un compagno. Egli, due anni prima, aveva già tentato questa ascensione ma purtroppo per vari motivi dovette desistere. Decidiamo di allenarci separatamente poiché Giovanni, avendo qualche problema alle ginocchia, preferisce utilizzare gli sci. D’altra parte io preferisco pestare neve con zaino pesante, un sistema che aveva già dato buoni risultati in Nepal. La storia, però, finisce diversamente: una settimana prima della partenza Giovanni mi telefona dicendo che per motivi di lavoro deve rinunciare. Come inizio questo viaggio si sta preannunciando un disastro!

Ugualmente intenzionato a non demordere, domenica 24 dicembre 1995 sono in volo. Forse avrei dovuto desistere ma i mesi di allenamento e i soldi investiti in materiali alpinistici non me lo consentono. La compagnia aerea utilizzata è la mitica Aeroflot che per qualsiasi itinerario ti fa girare il mondo due volte, ma a prezzi stracciati!

Viaggio tranquillo in compagnia di due signore russe molto simpatiche di ritorno dall’Italia per lavoro.

All’aereoporto di Mosca, prima tappa del viaggio, sono di nuovo solo. Dovrò attendere qui sino alle 04.00 di domani. E’ la sera di Natale e mi trovo lontano da casa, ma è così intenso il desiderio di giungere ai piedi dell’Aconcagua che tutto ciò non mi pesa. Correggo, non sono più solo, ho stretto amicizia con Fabio un ragazzo italo-argentino che vive in Italia. Si chiacchiera un po’ fino a che il sonno prevale. Avviciniamo un po’ di sedie ed il letto è preparato, per sicurezza carico la sveglia!

Salutiamo il freddo di Mosca; sosta rifornimento carburante a Tunisi, poi tappa a Capo Verde ed a San Salvador (Brasile).

Felice conoscenza in aereo di ragazze italo-argentine e di Mike, ragazzo cileno: con lui proseguirò il viaggio sino a Mendoza.

Il primo piede in Argentina lo appoggiamo nella metropoli di Buenos Aires; la cosa che mi colpisce di più è la bellezza delle ragazze argentine: il tutto é spiegato dal fatto che gli argentini per il 50 per cento sono di origine italiana, almeno questo è quello che ho letto da qualche parte.

Essendo il fenomeno migratorio avvenuto nel secolo scorso, la lingua italiana non è più molto conosciuta. Gli emigranti, di origine contadina, attraversarono l’oceano per trovare luoghi da coltivare. Attirati dal miraggio di terre fertili, che avevano solo bisogno di agricoltori, trovarono i terreni migliori in grandi appezzamenti già in mano a ricchi proprietari che avevano bisogno di manodopera. Di conseguenza molti di questi emigranti, per ripiego, si stabilirono nelle città ed in particolare a Buenos Aires.

Un po’ storditi dalle ventitré ore di viaggio da Mosca, io e Mike ci portiamo con un taxi (enormemente caro) alla stazione del bus. E’ tardi e bus diretti a Mendoza partono solamente domani mattina. Riflettuto un po’, decidiamo di allungare il percorso passando per Cordoba e questo ci consentirà di non dover dormire nella capitale, evitando una spesa inutile. Morale: undici ore per Cordoba più altre undici per Mendoza.

Mike è una persona squisita, in breve tempo abbiamo potuto fidarci l’uno dell’altro.

Domani lui proseguirà con suo padre verso il Cile per riabbracciare la giovane moglie e la figlia che non vede da otto mesi poichè per lavoro risiede a Stoccolma, dove opera nel settore della ristorazione.

Alla mattina del nuovo giorno saluto Mike e mi porto alla “Subsecretaria Provincial de Turismo” in Avenue San Martin 1143; qui è possibile acquistare il permesso per l’ascensione dell’Aconcagua che attualmente costa 80$. Inoltre riconfermo in un’agenzia della compagnia aerea Aeroflot il volo di rientro in Italia.

Non mi resta molto tempo per visitare Mendoza, meravigliosa città che non ha niente da invidiare alle più graziose cittadine svizzere, poiché alle 10.00 parte il bus con direzione Puente del Inca (metri 2.600).

Sul bus, oltre agli argentini che vivono in queste zone, ci sono alpinisti di mezzo mondo; non manca l’americano di turno che è già salito in vetta senza aver mosso un piede. Stringo amicizia con due alpinisti argentini, Juan ed Emiliano, e le quattro ore e mezza di viaggio permettono di formare un’unica cordata per affrontare insieme l’Aconcagua.

La località Puente del Inca è affascinante per la presenza di un ponte di origine naturale, formato dall’erosione dell’acqua solforica che sgorga a 35°C; alto diciannove metri, lungo ventisette, sembra facesse parte di un’antica strada degli Incas, da cui il suo nome.

Contattiamo un locale, il Signor Fernando Grajales, per l’affitto di una mula che ci aiuterà a portare i materiali sino al campo base. Il costo di una mula è di 126$ per gli argentini e 140$ per gli stranieri e può portare sino a 60 chili. Io mi accontento di far portare 10 chili, il resto è materiale di Juan ed Emiliano, pagando in dovuta proporzione e col beneficio di “argentino aggregato”.

Il percorso si snoda prima affiancando la laguna Horcones, poi, percorrendo ambienti da fiaba, si attraversa il rio Horcones due volte, prima a sinistra poi a destra (orografica), per giungere così a Confluencia: luogo ideale per pernottare grazie alla presenza di acqua potabile. Nei pressi della laguna vi è un posto di vigilanza dei guardaparco che controllano la regolarità dei permessi e annotano i dati personali di chiunque entri nel parco della “Sentinella di pietra”; inoltre ad ognuno consegnano un sacco per l’immondizia con stampato il numero di permesso. E’ un’iniziativa lodevole che non risolve comunque i problemi di inquinamento legati alla presenza di troppe persone in un’area limitata, quella del campo base e dei campi superiori.

Mentre Emiliano non ha troppi problemi, Juan continua a sostare per lo zaino troppo pesante. Per contraccambiare l’accoglienza ricevuta lo aiuto a portare parte del suo carico.

In quattro ore di cammino giungiamo a Confluencia, così detta poichè nei pressi confluiscono il rio Horcones superiore e quello inferiore. Nell’ultima ora ci accompagna la pioggia che ci perseguita durante il posizionamento della tenda e la preparazione della cena. Utilizziamo la tenda degli argentini, tiene meglio la pioggia e può ricoverare tre persone. Il brutto tempo ci obbliga a rintanarci nei sacchi a pelo e prima di addormentarci ci scambiamo consigli e incoraggiamenti nella speranza che tra qualche giorno tutti e tre saremo in vetta. Siamo a quota 3.300 metri.

Questa prima parte del viaggio mi induce ad una riflessione. Solitamente, viaggiando con un compagno fisso dall’Italia, ho la tendenza a chiudermi in me stesso, forte della mia esperienza di viaggiatore evito di allargare il gruppo. Viaggiando da solo in pochi giorni ho conosciuto un mucchio di gente ed è una sensazione piacevolissima.

Il cammino prosegue, non piove più e pur essendo parecchio allenato lo zaino di 20 chili con l’aumentare della quota si fa sentire. La cordata resta unita per poco poiché i due argentini, specialmente Juan, continuano ad effettuare soste che per me sono continue sofferenze dato l’elevato carico.

Decido di proseguire da solo accelerando il passo anche perché il tempo si sta guastando. A quota 3.900 metri inizia a nevicare come avevo previsto.

Per l’ascensione al cerro Aconcagua ci si può servire di due possibili campi base. Il primo, situato alla Plaza de Mulas, è più vicino al campo I ed offre una tenda con un medico a disposizione degli alpinisti. La seconda possibilità è di utilizzare un rifugio, o campeggiare nei pressi, situato in direzione opposta al campo I a circa 20-30 minuti da esso.

Riflettendo decido di portarmi nei pressi del rifugio dove monto la tenda e riordino i materiali. Continua a nevicare e fa piuttosto freddo; non mi resta che approfittare dell’esistenza del rifugio. Da Confluencia a qui ho impiegato sette ore di cammino ma le fatiche sono presto dimenticate grazie alla buona accoglienza del gestore; comprendendo la mia condizione di squattrinato mi spiega che c’è la possibilità di cucinare in un angolo del rifugio e di avere acqua, tutto al prezzo di 1$ al giorno. In questo rifugio i prezzi sono proibitivi! La pensione completa costa 65$ al giorno! Interrogando il gestore Edoardo, questi mi spiega che le condizioni atmosferiche sono pessime, da quattro giorni nessuno ha raggiunto la vetta, specialmente per le continue nevicate. Questa notte “cambia la luna” e si spera in un miglioramento del tempo.

E’ ormai sera ma di Juan ed Emiliano neanche l’ombra e comincio a pensare che, vista la nevicata e la lunghezza del tragitto, abbiano deciso di fermarsi per la notte lungo il percorso.

La mattinata sembra volgere al meglio, il sole invade l’azzurro del cielo e l’intensità dei raggi impedisce la visione del Cerro Aconcagua. Per essere a 4.200 metri ho dormito bene, nessun problema di male di montagna; mi accorgo che i problemi legati alla quota sono simili a quelli delle nostre Alpi. Giornata trascorsa ad asciugare la tenda e a passeggiare tra le morene leggermente coperte di neve.

Ricordo il racconto di due persone che erano salite su questa montagna in questa stagione, corrispondente alla nostra estate, con assenza quasi totale di neve, anche in vetta. Con la mia fortuna trovo neve già al campo base. Nel pomeriggio giungono i miei compagni argentini piuttosto affaticati e questa volta è Emiliano ad avere problemi maggiori legati alla quota. Mi sembra di capire che questa montagna viene affrontata da alpinisti che non ne sono all’altezza sia per qualità fisiche, sia per esperienza alpinistica.

Il cielo si chiude nuovamente e riprende a nevicare.

Ci rintaniamo nel rifugio e prepariamo uno “yerba mate”, tipica bevanda argentina dal sapore amarognolo ma molto invitante.

Mattinata successiva nuovamente all’insegna del bel tempo. Senza parole lo spettacolo che si apre ai miei occhi: oltre all’Aconcagua, più a sinistra il Cerro Manso (metri 5.350), il Cerro Cuerno (metri 5.400) e il Cerro Catedral (metri 5.100).

Mi incammino verso il campo I, denominato “nido de condores”, situato a quota 5.350 metri. Lo zaino infame (20 chili circa) mi opprime, avrei dovuto fare due viaggi ma il tempo è tiranno.

Con uno sforzo tremendo in cinque ore arrivo a destinazione; questa zona è famosa per la presenza del vento “blanco” che soffia a 150/200 chilometri orari per cui assicuro molto bene la tenda e costruisco un muro di sassi che la circonda.

Fortunatamente esiste una pozza d’acqua coperta da neve che eviterà la perdita di tempo ed energie nel lavoro di scioglimento della neve col fornellino. Resto della giornata dedicata al riposo e al riordino dei materiali; vicino alla mia tenda un gruppo numeroso di francesi e due brasiliani di cui faccio conoscenza.


31 dicembre 1995

Giornata di acclimatamento anche perchè il tempo per salire alla “cumbra” (vetta) non è dei migliori. La neve dei giorni passati è d’ostacolo per le ascensioni ma alcuni audaci hanno tentato ugualmente fornendomi ottime tracce per domani. L’ideale sarebbe salire al campo II, denominato rifugio Berlin, a quota 5.850 metri, ma sempre per ragioni di tempo tenterò la salita diretta in vetta.

1 gennaio 1996

La concentrazione e l’impegno per questa ascensione mi hanno fatto dimenticare che ieri era l’ultimo giorno dell’anno.

All’ora fissata per la sveglia, alle 04.00, il vento blanco si scatena. Solo alle 07.00 si quieta consentendomi di uscire dalla tenda. Purtroppo, soffiando tutta la notte, ha coperto tutte le impronte. Giungo al campo II esausto per lo sprofondare nella neve, ai miei occhi appare il “famoso” rifugio Berlin; poco più che una cuccia del cane senza tetto. In generale i vari bivacchi, posti attualmente lungo il percorso della via normale, non sono affidabili. Occorre tenerne conto solo in caso di emergenza. A fatica mi porto a quota 6.250 metri e qui mi fermo poiché completamente privo di forze: troppa neve e probabilmente non sono ancora acclimatato in maniera corretta per superare i 700 metri che ancora mancano alla vetta.

Deluso, scendo velocemente, smonto la tenda e mi porto al campo base.

Sto pensando di rinunciare quando, parlando con i francesi vicini di tenda al campo I, riesco a ritrovare fiducia in me stesso e, visto che mi offrono un posto tenda a “nido de condores”, domani partirò con loro.


2 gennaio 1996

Nasce così un’amicizia con questo gruppo composto da circa dieci francesi e due brasiliani e in tarda mattinata si parte per il campo I; tra loro quattro o cinque sono ottimi camminatori. Il mio compagno di tenda è Philippe, molto taciturno, di conseguenza è con altri che lego di più. Giornata di attesa stressante, ormai ho in testa solo la vetta. Finora ho riposato molto bene a qualsiasi quota e godo di ottima forma fisica.


3 gennaio 1996

Alle ore 04.30 il folto gruppo si incammina versa quella cima che per tutti è un sogno da realizzare. Fa molto freddo ma il terreno gelato consente un cammino non troppo faticoso. Al campo II sostiamo per aspettare che tutti o quasi arrivino. Mi sento in forma smagliante anche dopo lo strapazzo dell’altro ieri. Scendere al campo base è stata una buona decisione per riprendere le forze.

Sorpassato di poco il punto del mio precedente tentativo un’inaspettata tormenta ci sbarra il cammino. Siamo rimasti in cinque, i francesi decidono di proseguire ugualmente ed io, visto che sono solo le ore 09.00, decido di attendere che il tempo migliori.

Trascorsa un’oretta, i francesi ritornano in pessime condizioni sottolineando l’impossibilità di proseguire. Confermo la mia decisione di attendere, promettendo di proseguire solo al cessare della tormenta.

Tre ore di attesa infernali al riparo dal vento dietro una roccia, indaffarato a battere le mani ed a calciare i piedi contro un masso. La bufera sembra placarsi, ne approfitto!  Proseguo per un ripido pendio, poi scorgo tra i fumi il traverso che conduce al tratto terminale, la “canaleta”, 200 metri circa a 45°. Il terreno gelato mi favorisce in questo tratto terminale alquanto faticoso.

Il momento che tante volte avevo sognato è molto diverso dalla realtà. Sono in vetta e lo deduco perché la pendenza è terminata. Solo e non vedo niente. Ho piedi e mani gelati (quattro paia di guanti) e ho paura poiché il tempo sta peggiorando nuovamente e il vento ha ripreso a soffiare. E’ la prima volta che metto a repentaglio la mia vita per una montagna. Le mie lievi impronte sono scomparse ma per fortuna il percorso è ancora abbastanza evidente e il maltempo in tutta la giornata ha interessato solamente gli ultimi 600/700 metri della montagna, il resto del cielo è sereno. Questa è stata la motivazione principale che mi ha spinto a insistere così cocciutamente.

Discendo velocemente. Al campo I ritrovo i francesi preoccupati per la mia assenza prolungata. Tolti gli scarponi, lo spettacolo non è dei migliori: i piedi presentano le dita congelate di color nero e blu. Gli amici mi massaggiano i piedi e mi preparano aspirine e thè caldo. Poi di corsa mi porto a Plaza de Mulas dal dott. Raul.

Questi, dopo aver accuratamente controllato le parti lese, mi prepara una vaschetta di acqua a 40° con tintura di iodio per disinfettare e mi porge pillole di vitamine più altri farmaci ricostituenti. Mi spiega di ripetere l’operazione due, tre volte al giorno e quanto prima recarmi all’ospedale di Mendoza per un’ulteriore visita.

Per il percorso fino a Puente dell’Inca dovrò utilizzare un cavallo poiché il camminare potrebbe peggiorare la situazione.

Oltre alla mia personale disavventura, oggi è accaduto un episodio che non riuscirò mai a dimenticare: un cane ci ha seguito sino alla quota di 6.000 metri e non c’è stato modo di allontanarlo, è morto congelato! Probabilmente aveva già perso la ragione trascorrendo la notte al campo I.


4 gennaio 1996

Ultimi saluti agli amici del rifugio: a Juan ed Emiliano, che salgono finalmente al campo I, ai francesi ed al gestore Edoardo. Non mi resta che salire, per la prima volta nella mia vita, su un cavallo per percorrere i 42 chilometri che mi separano da Puente dell’Inca. Cinque ore di sofferenze per giungere a destinazione stremato dal dolore, specialmente per lo sfregamento dell’inguine.

Arrivato troppo tardi per l’ultimo bus diretto a Mendoza, tento con l’autostop ma ho poca fortuna. La discesa a cavallo ed il trasporto dei materiali con la mula mi è costato 100$ non previsti, per cui sono a secco!

Entro in un ristorante chiedendo di mangiare qualcosa e un posto per dormire per pochi pesos, stile “barbone”. Ottenuto quanto richiesto, non contento domando la solita vaschetta di acqua a 40° e sale.

Il giorno seguente sono all’ospedale Lago Maggiore di Mendoza; i dottori mi rassicurano sulla condizione dei miei arti ma mi consigliano una volta rientrato in Italia di recarmi da uno specialista.

Tirare le somme di quest’avventura non è cosa facile. Sicuramente gli errori commessi mi aiuteranno in futuro. Troppo pochi diciotto giorni, a cui vanno sottratte le cento ore di viaggio, tra bus e voli aerei. Questa ascensione non mi ha dato grandi soddisfazioni; inoltre per diversi mesi guardando i miei piedi ho provato grande amarezza: più che un protagonista sono stato quasi travolto dagli eventi.


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Flavio Facchinetti