1996/1997 KILIMANJARO (5895 m) Tanzania

KILIMANJARO (5895 metri)


Il Kilimanjaro è la vetta più elevata del continente africano e probabilmente, aggiungo io, la più frequentata. Persone di tutto il mondo ogni anno giungono qui per tentare questa affascinante salita. La scarsità di precipitazioni rende praticamente possibile l’ascensione con condizioni decenti per quasi tutto l’arco dell’anno. Restano comunque gennaio, febbraio e settembre i mesi migliori dal punto di vista meteorologico per tentare la vetta.

La montagna è composta da tre vulcani spenti: lo Shira (3.962 metri), il Mawenzi (5.149 metri) ed il Kibo (5.895 metri) inseriti in un parco nazionale avente un’area di 756 kmq a partire dai 2.700 metri di quota.

A livello escursionistico il Kibo, cioè il vulcano al quale mi rivolgerò, presenta cinque itinerari principali: la via Marangu, la via Mweka, la via Umbwe, la via Machame e la via dell’altopiano dello Shira.

L’itinerario Marangu è nettamente il più frequentato; pur essendo, con i suoi 54 chilometri, il percorso più lungo resta il più agevole e semplice.

Il numero di permessi rilasciati quotidianamente per l’ascensione al Kibo è legato alla potenzialità ricettiva dei rifugi e ciò consente di contenere il sovraffollamento lungo il percorso di salita. Per quanto riguarda le altre vie di salita, c’è la possibilità di pernottare in bivacchi non custoditi, spesso non attrezzati e senz’acqua; occorre pertanto informarsi a priori sulle relative condizioni.

Nel mio caso, visto che il programma di questo viaggio in Tanzania era già abbastanza intenso, ho deciso di percorrere l’itinerario classico “via Marangu” che richiede, tra andata e ritorno, cinque giorni di cammino. Il numero dei giorni è legato al numero dei posti letto nei rifugi. Ciò non toglie che in caso di disponibilità di posti, oppure muniti di tenda propria, si possa prolungare la permanenza nel parco per meglio acclimatarsi o per gustare appieno l’ambiente circostante.

Attualmente il pacchetto comprensivo di portatori, guida obbligatoria, ingresso al parco, pernottamento e cibo ammonta a circa 400$ e, vista la continua richiesta, la tendenza è ad un ulteriore rialzo che, sommato alla svalutazione della nostra moneta, ne sta rendendo proibitivo il costo. Inoltre l’esigenza di ulteriori giorni di cui disporre per la salita ha un suo ulteriore costo.

Aspetto economico a parte, l’ascensione al Kilimanjaro rimane un’esperienza indimenticabile non solo per il fatto di salire sul tetto d’Africa ma anche per la diversità dei paesaggi che si incontrano lungo il percorso, conseguenza della posizione geografica di questo vulcano.

Martedì 24 dicembre 1996

Al gate del parco l’attesa è stressante. Simon, la nostra guida, passa ore davanti all’ufficio permessi facendo spesso la spola da un posto all’altro. Ma non era tutto organizzato?

Sembrerebbe invece che il tutto venga improvvisato lì per lì. L’Africa comincia a farsi sentire anche sotto aspetti meno piacevoli!

E’ ormai pomeriggio quando riusciamo ad incamminarci dal Kili-gate lasciando più in basso le aree coltivate favorite dall’abbondanza d’acqua e dalla particolare fertilità del terreno vulcanico. Il percorso si snoda attraverso un’affascinante foresta tropicale pluviale che si infittisce man mano che procediamo. Il 96 per cento dell’acqua del Kilimanjaro ha origine da questa zona; lungo questo tratto che interessa la fascia latitudinale dai 1.800 ai 2.800 metri è normale rimanere sorpresi dalla pioggia causata dalle nubi che cingono la foresta per la forte umidità associata alla quota.

Tra i grandi alberi, cedri, ginepri, olivi, canfori, si trovano festoni di liane, licheni e orchidee pendenti dai rami. Nella parte bassa della foresta, nei pressi di un fiume, crescono i sicomori e le palme; al suo interno si può ascoltare il canto degli uccelli ma difficilmente si riesce a scorgerli. Nel cuore della foresta vivono leopardi, antilopi, elefanti, bufali e rinoceronti ma si tengono lontani dal traffico degli escursionisti.

Il gruppo procede poco compatto, ognuno segue il proprio ritmo. I portatori, che dovrebbero portare 15 chili a testa, sono tutti molto giovani, in parte studenti. Il loro compito si esaurisce al rifugio Kibo. Solamente le guide proseguono sino alla vetta.

Per giungere al primo rifugio occorrono dalle due ore e mezza alla tre ore e mezza. Il suo nome è Mandara ed è situato a 2.726 metri. Oltre all’edificio principale, che funge da sala pranzo al pian terreno e da dormitorio da 20 posti al piano superiore, vi sono tanti piccoli chalet che rendono il tutto simile ad un piccolo villaggio. Queste strutture in stile norvegese, aventi la forma di una grande A, sono in ottime condizioni e buono è il livello igienico. E’ curioso osservare escursionisti di varie razze (giapponesi, bianchi, neri) che convivono scambiandosi informazioni ed emozioni.

Il nostro gruppo è composto da 14 persone, tutte italiane, con un età media di trent’anni. Quasi nessuno di noi ha mai raggiunto quote simili per cui questa salita un valore notevole.

La nostra guida, Simon, soprannominato DJ per via del fatto che porta sempre le cuffiette del walkman sulle orecchie, è introvabile!

Conviene tenersi nello zaino qualcosa da mangiare extra poiché in questi rifugi non si effettua servizio ristorazione. Nell’attesa, alcuni di noi fanno una puntata al Maundi Crater che si trova ad un quarto d’ora dal Mandara e da cui si gode di una bellissima vista.


Mercoledì 25 dicembre 1996

La colazione ci viene servita alle 7.30: marmellata, arance, burro, uova e porridge (pessimo). Per i pasti ci siamo accordati per il forfait di 50$ proposto dall’agenzia; nostro errore è stato non avere richiesto una lista degli alimenti per cui vi è la possibilità che il cibo venga consumato dai portatori invece che da noi.

Per la tappa odierna occorrono circa cinque ore che trascorriamo con un cielo sereno ed il vento alle spalle. Il paesaggio cambia completamente, compare la brughiera, formata da ciuffi d’erba alta fino al ginocchio e da erica alborea dai cui rami pendono festoni di muschio e licheni.

A quota 3.300 metri l’ambiente diventa più scabro e roccioso. Compaiono ora lobelie e seneci giganti: siamo nella landa. Queste piante hanno caratteristiche particolari che consentono loro di vivere in zone dove la temperatura scende sotto lo zero.

Eccoci ad Horombo posto a 3.780 metri. Anche qui i rifugi sono in ottime condizioni; ci dividiamo in tre sottogruppi occupando graziosi chalet in legno. L’acqua sgorga da due fontane e vi sono i servizi igienici. Nei pressi del rifugio è possibile osservare diverse colate di lava pietrificata (antiche eruzioni del Kibo) e la “roccia della zebra”, uno sperone lavico a bande verticali di roccia bianca e nera. Ad Horombo è presente una spedizione di Bergamo già salita in vetta; possiedono un satellitare e così due di noi, essendo il giorno di Natale, approfittano per telefonare a casa.

Per questo Natale ognuno di noi aveva il compito di portare un dolce tipico della propria zona. E’ uno spettacolo vedere questa distesa di dolciumi illuminati dalla luce delle candele. Devo confessare, però, che il mio dolce preferito è Cristina, una ragazza di Rimini facente parte del gruppo, assai simpatica e carina. Chissà!

Giovedì 26 dicembre 1996

Alla mattina c’è una vera competizione per accapparrarsi i pochi tavoli a disposizione. I nostri portatori non brillano in puntualità per cui occorre aspettare parecchio.

Tappa di oggi è il rifugio Kibo, situato a 4.750 metri di altitudine. Per arrivarci vi sono due possibilità: la via più breve e più diretta è a sinistra mentre a destra, con un sentiero erboso ed eroso, si snoda la “ Upper Route” che passa ai piedi del Mawenzi toccando la sella dei venti per poi attraversare un vastissimo altipiano brullo con il Kilimanjaro sempre di fronte ed il Mawenzi alle spalle.

Si formano due gruppi, cinque di noi (me compreso) optano per la seconda possibilità.

E’ un percorso bellissimo e suggestivo che decido di compiere da solo per meglio gustare questi luoghi. Mai dimenticherò questi momenti. Sull’altipiano non c’è anima viva e mi sembra di essere in mezzo al deserto. Imitando altri escursionisti, raccolgo dei sassi con i quali, posizionandoli meglio che posso, scrivo sul terreno il mio nome. E’ quasi un gesto meccanico che compio per obbligarmi a fermarmi il più a lungo possibile senza farmi sopraffare dalla fretta che spesso mi assale durante le gite in montagna.

Osservo con ammirazione la frastagliata vetta del Mawenzi (5.149 metri), montagna poco frequentata a causa del Kibo, assai più famoso per le difficoltà tecniche della sua salita. Avrei la tentazione di provare a salirci ma il fatto di non avere nemmeno una corda e di non aver avvisato nessuno cancella all’istante questo pensiero.

Qui, sopra i 4.000 metri, esistono solamente cinquantacinque specie vegetali mentre ragni, dermatteri ed altri piccoli insetti sono gli unici animali. In questo deserto ogni giorno è estate ed ogni notte è inverno!

Al rifugio, unica costruzione in pietra che può ospitare fino a sessanta persone, ci ritroviamo tutti e quattordici con grande gioia, nessuno si è arreso! Inoltre esistono delle baracche per cucinare e come ricovero per i portatori.

Simon è nuovamente introvabile! I più informati sostengono che, oltre a noi, accompagna un gruppo di belgi!

L’altitudine si fa sentire e tutti noi, anche se in maniera diversa, presentiamo i sintomi dei malori dovuti alla quota: nausea, emicranie e sonnolenza.

L’acqua che serve per cucinare e per bere è stata portata dai portatori che, qui giunti, hanno esaurito il loro incarico poiché domani solo la guida con un aiutante salirà in vetta.

Tentiamo di riposare qualche ora poiché all’una di domani si parte.


Venerdì 27 dicembre 1996

La luna ci accompagna durante la salita finale e non devo nemmeno accendere il frontale. L’esperienza mi ha insegnato che è meno scoraggiante percorrere al buio queste distese di ghiaioni che, essendo inoltre gelati dal freddo notturno, sono più facili da attraversare. Siamo divisi in piccoli gruppi a seconda dell’andatura.

Salendo la temperatura si fa più rigida obbligandomi ad indossare tutti gli indumenti in mio possesso. Per questa ascensione non mi sono allenato, ma la mia presenza regolare sulle Alpi spero mi aiuti ugualmente.

A metà strada c’è una grande sporgenza chiamata “cava di Hans Meyer” in ricordo dell’uomo che per primo salì sul vulcano nel 1889. Alcuni di noi avevano chiesto alla guida di portare tre termos di thè caldo per rifocillare il gruppo ma il furbastro ne scaricherà presto due, forse per il peso.

Giunti sul bordo del cratere, il Gillman Point, attendo che qualcuno del gruppo arrivi. Sono solo e fa molto freddo ma intendo giungere alla vetta Uhuru (5.895 metri), il punto più alto del cratere, insieme a qualcuno dei miei compagni per poterci fotografare come ricordo.

Finalmente arriva Enrico ed insieme percorriamo gli ultimi 200 metri di dislivello. Anche se il sole è già sorto la presenza di nebbia e nubi ci impedisce di vedere l’ambiente circostante. Guardando il mio altimetro leggo anche la temperatura di -25 C° che spiega tutto questo freddo: non ci resta che scendere!

Impressionante il ghiacciaio settentrionale, pur essendo tutto ciò che rimane della coltre glaciale che un tempo riempiva l’intero cratere.

Infine ci ritroviamo tutti e quattordici al rifugio Horombo come stabilito. Ognuno racconta come ha vissuto quest’avventura, della fatica e del freddo patito. Quattro sono giunti all’Uhuru, tre al Gillman Point, gli altri sette componenti del gruppo ridiscesi da quote diverse per l’eccessivo affaticamento o per malore di quota. La cena ci sembra buonissima e abbondante, poi a nanna sotto un cielo stupendo.


Sabato 28 dicembre 1996

Rimangono circa 24 chilometri per tornare al Kili-gate. Per variare scendiamo per il Forest Trail che si imbocca all’altezza di un cartello nei pressi di un ponticello. Il sentiero passa nella foresta pluviale in un’atmosfera tranquilla e silenziosa. Al gate, per chi ha raggiunto almeno il Gillman Point, viene consegnato un diploma.

Salutiamo i portatori, che ricevono qualche dollaro di mancia ed alcuni nostri indumenti. Anche Simon riceve una buona mancia, non certo per la sua professionalità ma perché ci ha tenuti allegri per qualche giorno.

Jambo!!


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Flavio Facchinetti